Che cosa non va nella felicità?
Pubblicato il 23/01/2021
(da Zygmunt Bauman, L’arte della vita, Ed Laterza)
La domanda del titolo spiazzerà forse diversi lettori. Ed è proprio questo il suo intento: spiazzare, indurre a fare una pausa e pensare. Una pausa? Si, una pausa nella ricerca della felicità, che (la maggior parte dei lettori sarà d’accordo) è la cosa che abbiamo in testa la maggior parte del tempo, che ci impegna gran parte della vita, che non può rallentare, e non rallenterà, né tanto meno si fermerà…o almeno, non più di un attimo (fuggente, come sempre).
Perché quella domanda spiazza? Perché chiedersi che cosa non va nella felicità è come chiedersi che cosa c’è di caldo nel ghiaccio o di maleodorante nella rosa. Il ghiaccio è incompatibile con il calore e la rosa con il tanfo, e perciò porre domande simili è come ipotizzare una coesistenza inconcepibile (dove c’è il caldo non può esserci ghiaccio).
Come potrebbe esserci qualcosa che non va nella felicità?
Felicità non significa forse assenza di cose che non vanno? Non è sinonimo dell’impossibilità di una loro presenza, dell’impossibilità di ogni e qualsiasi cosa che non va?
E tuttavia questa è la domanda che si è posto Michael Rustin, che prima di lui si sono poste con preoccupazione parecchie persone e che altre probabilmente si porranno in futuro.
Il perché lo spiega Rustin: società come le nostre, mosse da milioni di uomini e di donne in cerca di felicità, diventano sempre più ricche, ma non è affatto chiaro se con ciò diventino più felici.
Tutti i dati empirici che abbiamo fanno pensare che nella popolazione delle società opulente forse non c’è alcun legame tra aumento della ricchezza (ritenuta il principale veicolo di una vita felice) e aumento della felicità […]
Alcuni osservatori notano che la metà circa dei beni cruciali per la felicità non hanno un prezzo di mercato e non si possono acquistare nei negozi.
Quale che sia il contante e il credito di cui disponiamo, non troveremo in un centro commerciale l'amore e l'amicizia, i piaceri della vita familiare, la soddisfazione di prenderci cura dei nostri cari o di aiutare un vicino in difficoltà, l'autostima per un lavoro ben fatto, la gratificazione dell'istinto di operosità, che chiunque possiede, la simpatia e il rispetto dei colleghi di lavoro e delle altre persone con cui abbiamo a che fare; e non potremo ottenere la libertà dalle minacce dell'indifferenza, del disprezzo, delle offese e dell'umiliazione.
Inoltre, guadagnare denaro sufficiente per potersi permettere quei beni che si possono trovare nei negozi incide molto sul tempo e sulle energie che restano per procurarsi e godersi beni come quelli sopra elencati che non vengono prodotti per il mercato e non sono in vendita.
Può accadere, e spesso accade, che le perdite superino i guadagni e che la capacità dell'accresciuto reddito di generare felicità sia inferiore all'infelicità data da uno scarso accesso ai beni che non si possono acquistare con il denaro.
Il consumo (come lo shopping) richiede tempo, e chi vende beni di consumo ha un naturale interesse a ridurre al minimo il tempo dedicato all’atto piacevole di consumare […]
La convergenza di interesse tra acquirenti e venditori viene data per scontata dai cataloghi commerciali, che accompagnano con tante promesse la descrizione dei nuovi prodotti offerti: “senza il minimo sforzo”, “anche senza precedenti esperienze”, “avrete in pochi secondi” o “con un semplice tocco” musica, immagini, delizie del palato, una camicetta pulita […]
Se, grazie a un nuovo e geniale congegno elettronico si riescono ad aprire scatolette con un minore impiego di energia (nocivo), ci sarà più tempo per fare ginnastica con attrezzature che promettono una varietà (benefica) di esercizi. Ma quali che siano i vantaggi di un simile scambio, la loro incidenza sulla somma totale della felicità è tutt’altro che univoca.
Prima di iniziare la sua interessante indagine nelle sale d’attesa di ogni tipo, Laura Potter si aspettava di trovarvi persone impazienti, scontente, accalorate, pronte a inveire per ogni millisecondo perso e a maledire la faccenda urgente che le costringeva a stare lì ad attendere. La sua idea di partenza era che il culto della gratificazione istantanea per molti di noi significasse la perdita della capacità di attendere.
Tuttavia, con sua (e forse anche nostra) grande sorpresa, Laura Potter si è trovata di fronte a un quadro diverso da quello che aveva previsto.
Ovunque è andata, ha avvertito la stessa sensazione: l’attesa è stata un piacere…Attendere sembra ormai diventato un lusso, una parentesi nella nostra vita fittamente programmata. Nella nostra cultura dell’adesso, fatta di BlackBerry, computer e cellulari, chi attende vede la sala d’aspetto come un rifugio.
Forse (è la conclusione di Potter) quel luogo ci ricorda l’arte di rilassarci, tanto piacevole ma purtroppo dimenticata…
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